SECONDA DOMENICA DI PASQUA

11 Aprile 2021/ Anno B

At 4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

            «Ciò che sconfigge il mondo è la nostra fede!». Così ha detto Giovanni nel passo della sua Prima lettera che oggi si legge. Il mondo è arrogante, il mondo è autosufficiente, il mondo ha le sue regole razionali e di buon-senso, il mondo si fida di se stesso. Si comprende che, se questo è l’ identikit del mondo, ciò che al mondo si oppone è la fede perché credere significa deporre ogni arroganza (se la fede è vera fede e non sistema di potere e di prevaricazione!), perché credere significa fare il salto oltre il razionale ed il buon-senso, perché credere è mettere fiducia in un Altro!

            La fede che vince il mondo però, per Giovanni, non è una fede generica in un Dio generico o peggio in un “qualcosa” di superiore; si tratta invece della fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio inviato dal Padre e che è venuto nel mondo e ha parlato al mondo con tutta la sua vicenda: dall’acqua al sangue, cioè dal Battesimo al Giordano fino al sangue del Golgotha… non solo con l’acqua, che richiama la sua vicenda pre-pasquale ma anche con il sangue che narra la sua vicenda di Pasqua fatta di morte e risurrezione; di questo mistero unitario di Cristo è testimone lo Spirito che è verità.

            Non accogliere questo mistero è rimanere con le porte chiuse dinanzi alla testimonianza dello Spirito, testimonianza che ora passa necessariamente per la Chiesa radunata dal Risorto. Nel sommario di Atti, che oggi si legge nella liturgia, la Chiesa è testimone della Risurrezione con una vita fatta di condivisione vera e radicale; è come se Luca qui ci volesse dire che senza questa condivisione concreta di beni non si narra la fiducia in Dio, non si narra di un Dio affidabile cui consegnare la propria esistenza. Questi sommari di Atti (sono tre e questo è il secondo!) hanno sempre generato nella Chiesa lo slancio utopico, lo slancio verso l’oltre, lo slancio verso una radicalità ecclesiale colta come unica strada perché l’Evangelo corra! Questi sommari sono all’origine di tutti i moti di riforma della Chiesa e in questo tempo, in cui una vera riforma è quanto mai urgente dopo più di cinquant’anni dalla grazia del Concilio, bisognerebbe riprenderli tra le mani e nel cuore per farsene provocare seriamente. Per questo secondo sommario di Atti hi non condivide è ancora uno che si fida di sé, delle proprie cose, del proprio possedere: si fida di ciò che ha perché questo lo mette al sicuro. Insomma chi non condivide dice ancora il suo amen alle cose e non al Risorto che ha vinto il mondo.

            La celeberrima scena del Cenacolo che oggi si legge è in due parti e la prima si colloca alla sera del giorno di Pasqua e la seconda all’ottavo giorno.

            Ci sono porte chiuse…

            Queste porte chiuse ricevono Gesù risorto al proprio interno; il Risorto va a visitare le prigioni che gli uomini si creano con le loro paure, il Risorto va a visitare il mondo che tiene nelle sue braccia, ben stretti, coloro che appartengono al Cristo («erano tuoi e li hai dati a me» cf. Gv 17,6); la loro arroganza, la loro razionalità, il loro buon-senso, il fidarsi solo di se stessi hanno impedito loro di accogliere l’Evangelo annunziato da Maria di Magdala fin dal mattino di quel “giorno uno” (cf. Gv 20, 1ss). Ed eccoli lì, ancora dietro le porte chiuse della loro autosufficienza aggravata da una buona dose di paura. Sì, la paura… è una delle armi migliori del mondo; il tentatore sa che deve far entrare in scena la paura per vincere i discepoli, per vincere gli uomini!

            E Gesù? Gesù entra a porte chiuse… cioè? Entra in quell’ inferno chiuso delle loro angosce, paure ed autosufficienze. Quando però Lui entra quello spazio chiuso si riempie di bellezza: pace, gioia, misericordia, inizio di un mondo nuovo.

            Lui entra e soffia da Creatore e ri-creatore; va a condividere quelle porte chiuse che dopo potranno spalancarsi perché ormai dentro ci sono uomini trasformati, uomini testimoni di vita e non più testimoni di paura.

            Tommaso che era assente nel giorno di Pasqua era rintanato in porte chiuse tutte sue e solo sue, in porte tanto chiuse da non prevedere neanche la presenza degli altri “condiscepoli” (cf. Gv 11, 16): è il primo peccato di Tommaso; è la sua prima mancanza di fede per cui non riesce a vincere il mondo: non crede all’umanissima forza dello stare assieme nella fraternità; in quella sera di Pasqua è solo perché si fida solo di se stesso.

            Gli altri, usciti, grazie all’incontro con il Risorto, dalla loro tomba di paura e di autosufficienza cercano di strapparlo dalla sua tenebra, dalla sua tomba, quella che s’era costruito da solo: non ci riescono. Giovanni scrive che essi «gli dicevano: Abbiamo visto il Signore!»… e usa un imperfetto per dire che la loro testimonianza non fu un momento, non fu una parola veloce e fugace: glielo ripetevano con amore, con la forza dello Spirito, con la dolcezza della misericordia (il Risorto aveva dato loro il compito di perdonare!), glielo dicevano nella pace. Tommaso, però, è troppo asserragliato nelle sue porte chiuse…

            Solo se entra Gesù in quelle porte chiuse tutto cambia… e così Gesù, che sa che nella Chiesa c’è anche Tommaso, che nella Chiesa ci sono anche quei cuori più duri degli altri, entra nelle porte chiuse di Tommaso. Giovanni, con profondità, scrive che Gesù entra di nuovo a porte chiuse e sono solo quelle di Tommaso, gli altri infatti sono liberi… e solo per Tommaso Gesù rifà tutto: annunzia la pace e spalanca a lui le sue ferite perché, come aveva chiesto, lo tocchi e dia soddisfazione alla sua insana e folle voglia di prove tangibili. Quando però Gesù è dentro tutto si “scioglie”… povero Tommaso! Non tocca nulla, non asseconda più il mondo che lo abitava e rendeva prigioniero; dice solo poche parole che sono la confessione di fede in Gesù più grande dell’Evangelo: O Kyriós mou kaì o theós mou (“Signore mio e Dio mio”).

            Gesù non va a prendersi una rivincita, Gesù paradossalmente “gli obbedisce” perché in lui possa sorgere l’obbedienza… fiorisce però lì l’estrema beatitudine dell’Evangelo: «Beati quelli che hanno creduto senza vedere».

            Il Risorto chiede la fede: la fede e basta!

            Solo così i suoi discepoli potranno vincere il mondo.

            Tommaso poteva essere il primo di noi che abbiamo creduto e crediamo senza vedere (cf. 1Pt 1,8) ed invece ha voluto essere l’ultimo di quelli che hanno visto e danno testimonianza a noi.

            Poteva essere la primizia della Chiesa della pura fede senza nulla aver visto, è stato invece l’ultimo frutto della fede che scaturisce dall’incontro visivo con il Risorto…

            Cristo ha accolto questa via di Tommaso e vi ha acconsentito… noi oggi fondiamo la nostra fede anche sulla sua testimonianza a cui l’Evangelo attribuisce quel vertice di consapevolezza: Gesù è Signore e Dio… la sua testimonianza che è colma della tenerezza di un incontro personale («Signore mio e Dio mio»). Le piaghe del Crocefisso sono andate a cercarlo nella sua incredulità… il Signore conosceva il suo cuore, le sue domande, le sue fragilità, il suo peccato e gli ha aperto ancora le piaghe della Passione perché Tommaso potesse trovarvi rifugio e da lì rifiorire e ridivenire Apostolo con gli altri Apostoli.

            Quando il Signore viene a cercarci nei nostri terreni brulli, spogli, colmi delle spine delle nostre autosufficienze e delle nostre paure che ci raggelano, lasciamoci trovare e lasciamoci contraddire da Lui, dalla sua presenza, dalla sua ricerca, dalla sua tenerezza che non teme il confronto con la nostra incredulità! Senza nulla vedere saremo più beati di Tommaso e anche degli altri Apostoli che pure sederanno in trono a giudicare le tribù di Israele (cf. Mt 19,28).

P. Fabrizio Cristarella Orestano

Incredulità di Tommaso (miniatura dall’Omiliario, Bassa Renania, I metà XIV sec.) Baltimora (Maryland, USA), Walters Art Museum, (ms. W.148, f. 45v